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QUEI POVERI MINATORI MORTI NELL’INFERNO DI MARCINELLE. L’EX MINATORE GIOVANNI CAMILLO DI CASTELFORTE RACCONTA LA TRAGEDIA
La tragedia si consumò l’8 agosto 1956: delle 275 vittime 136 erano italiane. Due carrelli adibiti al trasporto del carbone precipitarono in basso tranciando i cavi dell’alta tensione e i tubi dell’olio. Divampò un incendio violentissimo che non lascio scampo a chi lavorarava nel pozzo
La seconda guerra mondiale, con i suoi disastrosi effetti, aveva gettato sul lastrico il nostro paese. Mancava tutto e c’era da avviare la titanica opera della ricostruzione. Mancavano soprattutto le materie prime, indispensabili per riavviare il processo di industrializzazione che si era bruscamente arrestato. E così, per cercare di ovviare in qualche modo al grave problema, nel 1946 viene stipulato un protocollo con il Belgio, ratificato poi a Roma il 27 aprile del 1947, in virtù del quale in Italia sarebbero affluiti grossi quantitativi di carbone mentre, in cambio, il nostro paese avrebbe fornito la mano d’opera che lì scarseggiava. L’accordo prevedeva l’invio di 50 mila unità lavorative (che poi, in effetti, sarebbero diventate 64 mila), duemila a settimana, di età non superiore ai 35 anni, da impiegare in gran parte nelle miniere di carbone.
Il lavoro in miniera era durissimo ai limiti dell’umana sopportazione
L’8 agosto del 1956, 275 uomini scendevano nelle viscere della miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, nei pressi di Charleroi. Gran parte di quei minatori erano italiani giunti un po’ da ogni dove attratti dalla opportunità lavorativa e da una discreta possibilità di guadagno. Almeno così recitavano i manifesti affissi in tutti i comuni della Penisola. La realtà, però, era assai diversa. Il lavoro era durissimo, ai limiti dell’umana sopportazione e, soprattutto, molto pericoloso. La remunerazione, poi, non era così soddisfacente come tutto lasciava supporre. Dopo un lungo viaggio in treno che poteva superare anche i tre giorni (il punto di partenza era la stazione di Milano), i lavoratori italiani venivano fatti scendere nella zona destinata allo scarico delle merci. E già questo era un discreto biglietto da visita. Quanto all’alloggio venivano gettati in putride baracche di legno che nel corso dell’ultima guerra erano state utilizzate dai prigionieri russi. Tale sistemazione indecente aveva una sua logica: i lavoratori italiani dovevano essere tenuti distanti dalle città perché il loro arrivo non era granché gradito dalla popolazione locale che molto aveva rumoreggiato. I belgi, insomma, non vedevano di buon occhio i “musi neri” italiani e preferivano tenerli nascosti nelle campagne alla stregua di una massa sporca e invisibile. L’opera lavorativa che svolgevano era utile, anzi indispensabile, la loro presenza, invece, non era affatto gradita. Finché non giunse quell’8 agosto, un tragico mercoledì.
Divampo’ un incendio che non lascio scampo ai minatori, morirono 275 persone tra cui 136 italiani
I minatori, come tutte le mattine, scesero nei pozzi scavati nel sottosuolo. Si partiva da quota 765 per giungere a 1.035 metri di profondità. Poco dopo le otto due carrelli adibiti al trasporto del carbone si incastrarono provocando il crollo di una trave di legno che, venendo giù, tranciò i cavi dell’alta tensione, i tubi dell’olio e dell’aria compressa. Immediatamente divampò un incendio violentissimo con il fuoco e il fumo che raggiunsero gli angusti cunicoli della miniera. I disperati tentativi di portare aiuto ai minatori che si trovavano nei tunnel fallirono tutti anche perché il fuoco, bruciando i sostegni di legno nelle gallerie, provocò crolli e smottamenti. Fu una vera ecatombe. Dei 275 minatori che si trovavano sottoterra al momento dell’incidente soltanto in 13 scamparono alla morte.
Furono 262 le vittime e tra queste ben 136 italiani. Di essi il più giovane aveva soltanto 14 anni, il più vecchio 53. Una tragedia di dimensioni epocali che scosse molto l’opinione pubblica del nostro paese inducendo il governo italiano a bloccare la strada dell’emigrazione verso il Belgio. Ci fu anche un processo che si concluse con l’assoluzione dei dirigenti della società mineraria. La responsabilità, infatti, fu attribuita all’operaio addetto alla manovra del carrello, guarda caso un italiano, rimasto ucciso nell’incidente.
Giovanni Camillo di Castelforte, minatore emigrato in Belgio, racconta l’inferno di Marcinelle
Qualche anno fa, assieme al collega Ermanno Amedei, sono riuscito a rintracciare un minatore che aveva lavorato proprio nell’inferno di Marcinelle. Si tratta del signor Giovanni Camillo di Castelforte, una settantina d’anni o giù di lì, che per tre lustri ha estratto carbone nelle miniere belghe.
«Difficile spiegare cosa è una miniera: gallerie che prendono nomi come le strade di una città e il sottosuolo del Belgio è una vera città» così ci dice con la voce roca il signor Camillo aprendo il cassetto dei ricordi. Aveva soltanto 14 anni quando scese in una miniera. Pochi mesi prima, siamo nel 1949, Giovanni e la madre avevano lasciato Castelforte alla volta del Belgio dove già si trovava il papà Antonio, anche lui minatore. A 28 anni il nostro era già in pensione: l’inalazione della polvere di carbone gli aveva procurato una fastidiosa silicosi.
«Quando nel 1947 mio padre tornò dalla prigionia inglese, qui non c’era di che vivere: l’unica soluzione era emigrare. Così ci trasferimmo in Belgio. Si lavorava a turni di otto ore a mille metri di profondità. L’ascensore, quasi in caduta libera, impiegava pochi secondi per raggiungere il fondo del tunnel e le 70 persone che ogni volta scendevano dovevano percorrere molti chilometri prima di raggiungere la vena di carbone da estrarre. Ogni minatore portava con sé un casco con la lampadina, un’ascia e tre lampade. Sul posto dove aveva operato il collega del turno precedente trovava il martello pneumatico azionato ad aria compressa del peso di 12 kg. Un giorno, era l’8 agosto del 1956 – e qui la commozione si fa fortissima – avevamo finito il turno e stavamo risalendo in superficie. L’ascensore che scendeva e che avrebbe dovuto portare gli operai del turno successivo, era vuoto. E questo sicuramente era un brutto segno. Una volta sopra sapemmo della sorte toccata a 262 colleghi dei quali 136 erano nostri connazionali. Le scene più strazianti si videro quando iniziarono ad arrivare i familiari delle vittime: migliaia di persone ammassate in baracche, tende o ricoveri di fortuna. Erano madri, padri, mogli e figli che cercavano i corpi dei loro cari. Ci vollero ben 40 giorni per spegnere l’incendio nelle gallerie. E’ facile capire che di quei poveri minatori rimase poco o niente».
Il signor Camillo ricorda perfettamente che dopo soli tre giorni da quella tragedia, mentre l’incendio ancora divampava, era già dovuto, come tanti altri, tornare al lavoro. «Quello fu un fatto terribile ma cose terribili in quel posto accadevano tutti i giorni. Ogni volta che si scendeva nel pozzo si salutava la famiglia come se fosse l’ultima volta. Un giorno il nostro ascensore era appena arrivato sul fondo quando sentimmo un tonfo sul tetto della cabina: era un minatore di Foggia del turno precedente che, quasi arrivato all’uscita, aveva inavvertitamente aperto con lo zaino la maniglia della porta della cabina ed era precipitato in basso facendo un volo di 820 metri». Immagini terribili affollano la mente del signor Giovanni. «Ricordo perfettamente quando, a causa di una frana nel tunnel dove lavoravo, un operaio finì con una gamba sotto un grande masso. Il fratello allora fu costretto a tagliargli la gamba di netto servendosi dell’ascia e poté liberare il resto del corpo. Bisogna essere freddi e decisi per lavorare in miniera altrimenti non si sopravvive».
L’Italia ha dimenticato i minatori italiani che hanno lavorato all’estero: nessun risarcimento
Giovanni, in virtù dei suoi tanti sacrifici, gode di una pensione erogata dal Belgio. La sua patria, invece, sembra essersi dimenticata di lui e di quei tanti minatori che hanno scavato per anni e anni all’estero, nelle viscere della terra. E pensare che in virtù di quell’accordo intercorso tra il nostro governo e quello belga, ogni operaio italiano che lavorava in miniera procurava al suo stato 5 chilogrammi di carbone!
«Tornai in Italia – conclude amaramente Giovanni – nel 1968 con la famiglia perché volevo che i miei figli crescessero qui. La regione Lazio mi riconobbe un contributo per il rimpatrio di 144 mila lire. Nel 1975 a casa mia sono venuti i Carabinieri per ottenere la restituzione di quella somma: la legge che consentiva quell’elargizione, infatti, era stata approvata appena dopo il mio rimpatrio. Quindi l’unica cosa che lo Stato italiano mi aveva dato… se l’è subito ripresa».
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