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Tradizioni

ALLORO PER LA POLENTA ANTICA

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Nel mese di gennaio in molti paesi della Valle di Comino si festeggia Sant’Antonio abate; a Pietrafitta, frazione di Settefrati, si fa la “polentata”. L’usanza, ripristinata agli inizi degli anni ’70 dai giovani dell’associazione culturale “La Sirienza”, affonda le sue radici nel lontano finire del 1800. Stando a quanto riferisce Vincenzo Marchelletta, discendente della famiglia che diede inizio alla tradizione, fu proprio un suo antenato a fare il voto al Santo dalla barba bianca e “bianca”, appunto, fu la prima polenta per tutti, aromatizzata semplicemente con qualche foglia di alloro.

Pochi giorni prima della ricorrenza della festa del Santo, protettore per eccellenza degli animali da stalla, era successo che, mentre l’antenato si trovava sulle sponde del torrente che scorreva in località La Mola per abbeverare le mucche e i tori del suo aratro, una delle bestie rimase impantanata e, per quanti sforzi l’uomo facesse, non c’era verso di liberarla.Cosicché, volgendo lo sguardo in direzione della chiesa di S. Michele Arcangelo di Pietrafitta, invocò l’aiuto di Sant’Antonio abate promettendo che, in caso di accoglimento della sua supplica, avrebbe donato un piatto di polenta a tutti gli abitanti del contado. Straordinariamente il toro fu tratto in salvo e il 17 gennaio tutti gli abitanti della pittoresca frazione, uscendo dalla chiesa, potettero sostare con una scodella in mano in località Marchelletta e prendere un po’ della polenta votiva da mangiare poi in famiglia di modo che nessuno rimanesse escluso dall’assumere un cucchiaio del cibo benedetto.

Il rituale fu ripetuto anche l’anno successivo e poi ogni anno e, quando l’uomo morì, la sua famiglia si impegnò ad onorare quel voto che ormai era diventato tradizione per tutta la comunità. Vincenzo racconta anche che, da bambino, qualche giorno prima della festa, munito di carriola e con alcuni suoi coetanei bussava di casa in casa a chiedere un po’ di legna che tutti offrivano di buon cuore perché sarebbe servita per la cottura della polenta. I riti della questua di casa in casa e della distribuzione del cibo risalivano all’organizzazione dell’Ordine ospitaliero degli Antoniani, che ebbe sede a Vienne, in Francia, dove nel 1080 erano state trasferite le reliquie del Santo. Dal ripristino della tradizione, che per qualche tempo si era perduta, ad oggi, sono sopraggiunte gradualmente delle modifiche: si cominciò a condire la polenta con sugo di carne e cacio, nel paiolo si aggiunsero verdure, in primis la verza e i fagioli bianchi e la gente prese a contribuire offrendo tutti gli ingredienti necessari per la realizzazione della saporita e abbondante polentata. Oggi chi vuole può partecipare a “v’tà la plenta”, cioè a rimestarla nel pentolone durante la lunga e laboriosa cottura. In passato, quando il lavoro dei campi e l’allevamento degli animali erano praticati dalla maggior parte delle famiglie di Pietrafitta, il parroco faceva il giro delle stalle, che spesso avevano appese bene in vista oleografie del Santo o della Vergine di Canneto, per impartire la benedizione alle bestie tanto utili all’uomo e, laddove era possibile, gli animali venivano radunati in prossimità di spiazzi e fontane. Ma quando il religioso non potette più sostenere la fatica della lunga camminata a piedi, prese a benedire in chiesa una buona quantità di sale grezzo, chiamato sale nero, che ogni contadino prendeva e poi mescolava in piccole quantità al foraggio che dava alle sue bestie.

Nella vicina San Donato Val di Comino, oltre al sale, si benedivano anche l’olio e il pane dato ai fedeli amici dell’uomo. Ad orario convenuto, i contadini portavano fuori dalle stalle tutte le bestie e, dall’alto del Santuario del Patrono da cui il paese prende il nome, il sacerdote faceva discendere la benedizione sulla campagna e su tutti i suoi abitanti. Alle porte delle cucine e delle stalle si appendeva il Lunario del campagnolo, un cartoncino movimentato dall’immagine del Santo vestito con il saio, recante il classico bastone dell’eremita munito di campanello ed il libro delle preghiere e reso nell’atto di benedire un gruppo di animali (le colombe, il cavallo, l’asino, il bue, il cane, i conigli, le oche, le pecore, il gallo, la chioccia coi pulcini ed il maiale). Nella parte destra della raffigurazione un fuoco che arde. Non a caso ad esso è associata la dolorosa malattia della pelle, l’herpes zoster, volgarmente chiamata “fuoco di Sant’Antonio ”, o male degli ardenti,legata all’ ingestione di pane confezionato con segala cornuta contaminata dal fungo tossico Claviceps purpurea Tulasne. L’herpes zoster 8in imperversava negli anni in cui sorse la Confraternita degli Antoniani, sicché i monaci si dedicarono alla cura della contagiosa malattia, utilizzando acqua, vino e grasso di maiale. Proprio per quest’ultimo, ricevettero nel 1095 il permesso dalle autorità locali di allevare maiali anche all’interno dei centri abitati. Questi, contrassegnati da un campanello, potevano liberamente circolare per le strade ed erano alimentati dalla carità della gente. L’attributo del libro, poi, sta ad indicare sia il ruolo dell’Anacoreta quale patriarca del monachesimo, che la Regola assunta dagli Antoniani.
In un antico quadretto posseduto dalla famiglia Macari di Pietrafitta è presente anche il pavone e, al posto del fuoco ardente, si vede un roseto in fiore. Il pavone nella simbologia cristiana rappresenta l’incorruttibilità della carne e, quindi, nel contesto descritto sta a significare il buono stato
di salute degli animali; contemporaneamente, come immagine esotica, è il ricordo della vita dell’Anacoreta in Oriente. Per quanto riguarda il roseto, molto probabilmente esso rappresenta le virtù (le rose) che fioriscono da una vita di sacrifici e di stenti (le spine). Sempre nel Lunario (corsivo) sono indicati a margine le feste mobili, il calendario religioso, le eclissi, i giorni di vigilie e di digiuni, l’inizio delle stagioni; seguono i mesi dell’anno con la registrazione delle fasi lunari, che nel mondo contadino segnalavano i tempi favorevoli e quelli sfavorevoli alle semine, alle raccolte e ai vari lavori agricoli.

Il Santo, vissuto in Egitto tra la fine del III e l’inizio del IV sec. d. C., è stato sempre ritenuto grande taumaturgo contro alcune malattie che possono colpire sia gli uomini che gli animali. Tenace lottatore contro il demonio, Egli veniva invocato con una preghiera popolare detta “gl’ r’sp’nsorie” nella quale si trovano indicazioni riguardanti la sua vita accanto ad episodi che, invece, si riferiscono all’omonimo Santo di Padova. Ma della contaminatio delle due agiografie la gente non se ne faceva un problema; quando recitava o si faceva recitare “gl’ r’sp’nsorie” da donne preposte a ciò, il pensiero più intenso era per il Santo abate chiamato in dialetto “Sant’Antuón” per distinguerlo da Sant’Antonio. Nelle famiglie contadine gli uomini preferivano rivolgersi al primo, al quale chiedevano guarigione e prosperità per gli animali domestici, mentre le donne erano più propense ad invocare il secondo per scongiurare il malocchio, le malelingue, per essere favorite nei parti e nel ritrovare oggetti smarriti; più saggiamente, le mamme lo pregavano affinché le figlie trovassero presto un marito. Nella preghiera che segue sono ben evidenziate le virtù e la potenza miracolosa dell’anacoreta:

“A SANT’ANTONIO ABATE

O vero miracolo degli Anacoreti, gloriosissimo Sant’Antonio, eccoci prostrati
dinanzi a voi a venerare con le altre vostre eroiche virtù quella prodigiosa
fortezza con cui resisteste alle tentazioni del demonio e le vinceste dopo
lungo travaglio. Liberaste colla sola potenza del vostro nome, l’aria, la
terra, il fuoco, gli animali dalle sue maligne influenze. Deh! fate, che,
imitando noi anche la vostra invitta fermezza negli assalti dei nostri
spirituali nemici, otteniamo da Dio di partecipare in Paradiso alla vostra
gloria, e qui in terra alle vostre benedizioni, che invochiamo sull’aria,
sulla terra, sul fuoco, sugli animali che servono alla nostra alimentazione.
IMPRIMATUR: Mediolani, 10 Augusti 1898 – P. Carolus Nardi Pro Vic. Gen.”.

Pubblicato nell’edizione cartacea, Il Cronista n.3-4/2005

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