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Tradizioni

IL LAMENTO FUNEBRE DI UNA VEDOVA ABRUZZESE IN UNA NOTA DEL GIURISTA SORANO VINCENZO SIMONCELLI

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Vincenzo Simoncelli (1860-1917), professore universitario a Camerino, Pavia e Roma e deputato al Parlamento – ove tenne importanti discorsi sul bilancio della Pubblica Istruzione, sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, sulla delinquenza minorile e sui provvedimenti da adottarsi all’indomani del terremoto della Marsica –, ebbe molto a cuore il patrimonio storico-artistico della sua Terra collaborando, nella veste di redattore, fin dal primo numero con il Giambattista Basile. Archivio di Letteratura Popolare edito dal 1883 al 1907? a Napoli. Il periodico fu diretto da Luigi Molinaro Del Chiaro (1850-1940), napoletano e qualificato studioso di tradizioni popolari del nostro Sud (in particolare Matera, Meta, Napoli, Otranto e Teramo). Qui il Simoncelli pubblicò molte produzioni poetiche e canti popolari elaborati dai contadini e dai pastori della Selva di Sora, la contrada che dalla Porta di Cancello si estende fino a quello che fu il confine con lo Stato Pontificio. Alle pp. 54-55 del primo fascicolo egli rende pubblico “Il pianto della vedova di Scanno”, noto centro della Valle del Sagittario, a lui fatto conoscere da Giovanni Graziani di Villetta Barrea
Sul fasc. 10 dello stesso anno, Antonio De Nino, il celebre erudito abruzzese, comunicava al direttore che Il pianto si componeva di 17 strofe e che, intorno al 1830, era stato scritto da Sebastiano Mascetta di Colledimacine (Chieti).
Il Simoncelli fa precedere la trascrizione del testo da pochissime righe nelle quali si sofferma sul costume di Scanno che, da sempre, ha attratto l’attenzione degli studiosi e dei viaggiatori italiani e stranieri. Nelle prime quattro strofe la donna esprime tutta la sua disperazione per la scomparsa del marito e per il suo nuovo stato sociale che la costringe alla più completa solitudine materiale e morale. Prima, infatti, poteva contare su una piccola e rustica abitazione ora è priva di qualsiasi riparo e, soprattutto, di cibo per sé e per i figli che, di notte, implorano, ma invano, il pane. A nulla è valso il ricorrere alla pietà del “cumpare”, il testimone di matrimonio che, per consuetudine, in caso di morte del coniuge era tenuto a soccorrere la vedova. Alla strofa settima ella si paragona, vivente il marito, ad un’orsa opulenta mentre, dopo la sua scomparsa, è diventata secca come un’alice e nessuno, neppure più un cane, si accorge del suo dramma e si rivolge a lei con dolcezza. Il pianto termina con la speranza che possa presto trovare un altro compagno, non importa se brutto come uno sterpo.

“1.
Scura maja, scura maja!
Te si’ muort’ chigna facce?
Mo me stracce trecce e facce,
Mo me jatte ’ngoj’ a taja:
Scura maja, scura maja!
2.
Primma tenea ’na casarella,
Mo ’ntieng’ chiù reciette.
Senza fuoche e senza liette,
Senza pane e cumpanaja:
Scura maja, scura maja!
3.
M’ha lasciata ’na famija
Scàuza e nuda, appetitosa;
E la notte ci sgeveja
Vûne ju pane e i’ ne’ l’aja:
Scura maja, scura maja!
4.
Ieri jeje a ju cumpare,
A cerché la carité,
Me feceje’ ‘na strellota
Me menaje ’na staja:
Scura maja, scura maja!
5.
Sci’ mmajtt’, sci’ mmajtt’,
Quanno bene ch’ ’nt’ aje fatte!
Pe’ lu scianghe de la jatta
Pròpia straja m’aj’ a faja
Scura maja, scura maja!
6.
E la notte a l’impruvisa,
Quann’ durme, a l’ensaputa,
Aja ’ntrà’ pe’ la caùta,
Tutt’ le scianghe me t’aja vaja:
Scura maja, scura maja!
7.
Stava grassa chinta a ’n’orsa,
Me so’ fatta scecca scecca
’Nc’ è nu cone che me lecca,
Chi me scaccia e chi m’abbaja:
Scura maja, scura maja!
8.
A ju ciel’ che ’nci aje fatt’?
A ju munne puverella,
So’ remasta vudovella,
Mo m’arraja, mo m’arraja:
Scura maja, scura maja!
9.
Oh! ju ciele, famm’ascì,
Pe’ marite nu struppone
Ca se n’aje ju muntone,
La cacciuna sempre abbaja:
Scura maja, scura maja!.”.

“1.
Povera me, povera me!
tu sei morto e io come faccio?
ora mi straccio trecce e faccia,
ora mi getto in collo a te:
povera me, povera me!
2.
Prima teneva una casetta,
ora non ho più ricetto,
senza fuoco e senza letto,
senza pane e companatico:
povera me, povera me!
3.
M’ha lasciata una famiglia
scalza, nuda e affamata;
e la notte si sveglia
vuole il pane e io non l’ho:
Povera me, povera me!
4.
Ieri andai dal compare,
a cercare la carità,
mi fece una sgridata
mi batté con una stanga:
Povera me, povera me!
5.
Sii maledetto, sii maledetto,
quanto bene ti ho fatto!
per il sangue di una gatta
proprio strega m’ho a fare
Povera me, povera me!
6.
E la notte all’improvviso,
Quando dormi, all’insaputa,
ho da entrare pel buco della porta,
tutto il sangue ti ho da bere:
Povera me, povera me!
7.
Stavo grassa come un’orsa,
mi son fatta secca secca
non c’è un cane che mi lecca,
che mi scaccia e che mi abbaia:
Povera me, povera me!
8.
Al cielo cosa ho fatto?
al mondo poverella,
sono rimasta vedovella,
ora mi arrabbio, ora mi arrabbio:
Povera me, povera me!
9.
Oh! Cielo, fammi uscire
per marito uno sterpone
che se non hai il montone,
la cucciola sempre abbaia:
Povera me, povera me!”.

Il lamento trova un preciso confronto ad Amatrice, centro appartenuto fino al 1926 alla provincia de L’Aquila, edito in Canti popolari della Provincia di Rieti raccolti a cura di Eugenio Cirese, Rieti 1945, ristampato a Roma nel 1997 e, come riporta il curatore, si “cantilenava verso a verso, mentre con le braccia distese batteva tra loro le palme, e non le dita, in segno di grande disperato dolore”. La versione scannese, Scura maie, viene pubblicata per la prima volta, in trascrizione testuale, nel 1992 nell’edizione critica, curata da Giorgio Morelli, dell’opera di Romualdo Parente (1737-1831) – uno dei primi esponenti della letteratura dialettale italiana –, Zu matremonio azz’uso e la figlianna (e il Lamento della vedova a lui attribuibile) e contenenti riferimenti anche a debiti assunti dalla vedova con creditori e usurai. In precedenza le 15 strofe erano state pubblicate, ma in maniera scorretta, nel 1928 da Estella Canziani nella bella monografia, stampata a Cambridge, Through the Apennines and the lands of the Abruzzi.

Il Cronista 3-12/2006

 

Nato a Roma nel 1952 si è laureato con il massimo dei voti in epigrafia ed antichità latine presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza frequentando poi la scuola di perfezionamento di Archeologici classici presso l’Università di Pisa. Eugenio Maria Beranger è stato un grande studioso, rigoroso e appassionato che ha indagato e studiato con passione per 40 anni l’intero patrimonio storico-artistico demoantropologico con minuziose ricerche archivistiche. E’ stato folgorato dalla bellezza e dalla ricchezza del patrimonio storico dell’Alta Terra di Lavoro, che corrisponde a parte dell’attuale territorio del Lazio Meridionale, parte della Campania e dell’Abruzzo quando giovanissimo ha discusso la tesi di laurea sul patrimonio epigrafico dell’antica Arpinum. Studioso rigoroso poliedrico, iniziò ad occuparsi di quest’area del Lazio Meridionale nel 1974. Ha operato in numerose ricerche di superficie rivolte all’individuazione di epigrafi latine, monasteri benedettini, sorti nell’area di precedenti insediamenti o luoghi di culto italico-romani e di architetture di tipo agro-pastorale. Poi la sua indagine storico-archivistica si allarga ad altri settori:’ problematiche connesse con gli eventi naturali quali il terremoto di Sora del 1915 e l’innondazione del Liri del 1925, studio dei catasti e dei cabrei, l’approfondimento delle tradizioni popolari e trasformazioni del patrimonio edilizio tramandato dall’antichità, lo studio delle tecniche edilizie per aiutare e tutelare i centri storici, a storia del fascismo e della provincia di Frosinone. Ha dedicato grande attenzione allo studio dello sfollamento e al dramma della popolazione civile del cassinate. Ha partecipato a numerosi convegni, in cui ha trattato con rigore e inedite ricerche archivistiche temi sconosciuti ma di grande interesse. E ‘ stato protagonista nella creazione di alcuni musei e biblioteche civiche quali Arce Atina, Civitella Roveto, Cupra Marittima, Sora. Ha collaborato con i più importanti istituti scientifici, quali Accademia dei Lincei, Archivio di stato di Grosseto, Roma, Frosinone e altre istituzioni. È morto a Roma il 9 gennaio 2015.

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