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LA GUERRA CAFONA E LE RAGIONI DEL SUD

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Da qualche tempo a questa parte i contributi sul brigantaggio hanno fatto registrare una clamorosa impennata. Sarà il fascino che traspira dalla materia, sarà che il fenomeno resta uno dei più controversi della storia italiana dell’Ottocento, sarà il desiderio di colmare una grave lacuna che ancora oggi persiste, fatto sta che sono sempre più numerosi gli scritti che prendono in considerazione il brigantaggio e le sue implicazioni di natura sociale, politica e ideologica. Per anni dei briganti si è parlato poco e non sempre a proposito. I primi studi seri sul tema sono quelli di Franco Molfese (1964) che, malgrado sia trascorso del tempo, conservano ancora una straordinaria validità. Nelle regioni centro-meridionali del nostro paese il fenomeno assunse, all’indomani dell’unificazione, una dimensione notevole che preoccupò non poco i nuovi governanti piemontesi non sempre in grado di varare misure adeguate. Soltanto dopo un decennio di aspre lotte, dal 1860 al 1870, con un numero elevato di vittime (basti pensare che le perdite subite dall’esercito sabaudo superarono di gran lunga quelle fatte registrare nel corso di tutte le guerre di indipendenza messe assieme), il meridione poté dirsi ‘bonificato’ da quella che è passata alla storia come una ‘triste piaga’. Ma come andarono le cose? Furono davvero tutti briganti quelli che a centinaia di migliaia presero le armi contro i soldati piemontesi? Ci fu una qualche implicazione di natura politica e ideologica alla base della ‘rivolta cafona del Sud’? Oppure si trattò soltanto di un fenomeno delinquenziale? Questi e tanti altri interrogativi, dopo decenni di silenzio, finalmente iniziano ad essere posti con sempre maggiore insistenza. Perché vennero fuori i briganti? Cosa li spinse a ribellarsi così violentemente al nuovo ordine di cose? Perché la guerriglia post-unitaria durò così a lungo? Si dirà: il brigantaggio nelle province del meridione d’Italia è esistito praticamente da sempre, fin dai tempi più remoti. Ma, allora, perché scoppiò in maniera così virulenta solo dopo il 1860? Si può ridurre a mera attività delinquenziale quel fuoco inarrestabile che bruciò nel sud della Penisola per dieci lunghi anni? E se si trattava solo di malfattori, perché far ricorso all’esercito regolare e alle leggi speciali? Cosa fece il nuovo governo per sanare tale ‘piaga’ oltre ad armare i soldati e ad inasprire l’opera di repressione? Ci si è mai soffermati ad analizzare a fondo le cause che provocarono la dilagante rivolta? Forse, al riguardo, non tutto è stato raccontato. Forse la vera storia del brigantaggio non è stata ancora scritta. Da qualche tempo, però, si è iniziato ad indagare in maniera più seria e meno preconcetta su questi eventi, alcuni del tutto sconosciuti, andando magari a rispolverare le ingiallite carte custodite negli archivi di ogni ordine e grado. Già Indro Montanelli, nella sua monumentale ‘Storia d’Italia’, parlando del brigantaggio nella parte meridionale del nostro paese, così chiosava: “Massari caldeggiò come misura d’emergenza un inasprimento della repressione che un deputato abruzzese, Giuseppe Pica, tradusse in legge. Questa proclamava tutto il Sud, salvo poche province, in stato di brigantaggio e per i reati che rientravano sotto questa voce trasferiva la competenza dai tribunali ordinari a quelli militari. Per quanto arbitraria questa legge si rivelò tuttavia efficace. Alla fine del 1865 il brigantaggio era effettivamente debellato. Purtroppo non ne furono debellate le cause e le conseguenze. Qualche decennio dopo Nitti scriveva che per il cafone non c’era alternativa: o emigrante o brigante. Ma spesso diventava insieme l’una cosa e l’altra: il gangsterismo italo-americano lo dimostra”. Tale disamina, specie quando parla di “cause e conseguenze non debellate”, è assai significativa: è facile intuire, infatti, che ci si accanì in quegli anni nel reprimere sic et simpliciter il fenomeno senza comprendere a pieno le cause che lo avevano generato. E così facendo si aiutò il bri-gantaggio a prosperare e a rimanere in vita per lungo tempo, anche quando la fase, per così dire politica, era definitivamente tramontata. E se l’analisi di Montanelli, come sempre lucida e schietta, risale a qualche anno addietro, molto più recente è un’altra rivisitazione degli eventi che questa volta fa capo a Paolo Mieli, direttore responsabile del ‘Corriere della Sera’. Rispondendo ad un lettore di Torre del Greco, Mieli, non molto tempo fa, si soffermava a lungo sulla positiva analisi che il prof. Gianni Donno aveva fatto sulla commissione d’inchiesta sul brigantaggio, più nota come Commissione Massari dal nome del parlamentare che la presiedeva. Questi i punti salienti dell’intervento: “La commissione fu istituita alla fine di dicembre del 1862, entrò in carica ai primi di gennaio del 1863 e… portò a termine un’eccellente inchiesta sull’Italia meridionale. Notevoli erano ancora i pregiudizi dei commissari tra i quali c’era il generale garibaldino Nino Bixio. Padre Carlo Piccirilli sulla ‘Civiltà Cattolica’, protestò: ‘Questo che voi chiamate col nome ingiurioso di brigantaggio, non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro’. E, se tralasciamo la veemenza dei toni, almeno in parte aveva ragione. Tant’è che quando quell’inchiesta fu discussa in Parlamento si ebbe un violento scontro tra Massari che imputava il fenomeno del brigantaggio alle mene cospirative di agenti borbonico-clericali, e il mazziniano Aurelio Saffi che, invece, intravedeva le ragioni sociali di quelle sollevazioni del Sud. Dopodiché furo-no le leggi eccezionali predisposte dal deputato abruzzese Giuseppe Pica… La legge Pica avrebbe dovuto restare in vigore dall’agosto al dicembre del 1863. Invece fu prorogata in vari modi fino a tutto il 1865. Produsse nel mezzogiorno innumerevoli abusi che furono denunciati in Parlamento da Vito d’Ondes Reggio, un deputato siciliano e cattolico appartenente alla destra. Per protesta contro quel che era accaduto in seguito al varo della legge e contro il rifiuto opposto all’istituzione di una nuova commissione d’indagine, Giuseppe Garibaldi si dimise da deputato… Nella parte settentrionale della Lucania… sta maturando l’idea di varare iniziative per raccontare meglio la storia dei briganti che combatterono da quelle parti: Carmine Crocco, Giuseppe Caruso, Nicola Summa detto Ninco Nanco. Credo che sarà una buona occasione per parlare nuovamente della commissione Massari nonché della legge Pica. Senza dimenticare qualche buona ragione del Sud che resistette all’unità e i numerosi torti che esso subì in quella complessa stagione storica. Ma… se lo potremo fare sarà anche grazie alla documentazione prodotta dai nove parlamentari in quel viaggio di studio all’inizio del 1863”. L’intervento appare estremamente chiaro, così chiaro da non richiedere ulteriori delucidazioni. E la fonte è al di sopra di ogni sospetto. Questa volta non è uno studioso malato di nostalgia che propugna un anacronistico ritorno al passato né un fervente ‘aficionados’ neo borbonico sempre pronto a lodare in maniera sperticata le azioni della casa regnante a lui tanto cara: chi parla, oltre che storico, è il direttore di un giornale tra i più importanti del nostro paese. La qualcosa assume una particolare rilevanza e dimostra una volta di più, qualora ce ne fosse bisogno, quanto parziale sia stata la ricostruzione di alcune vicende storiche. Come accaduto per il brigantaggio che non può essere definito solo un’estrinsecazione delinquenziale ad opera di una variegata masnada di furfanti. Il fenomeno, in vero, è assai complesso e va indagato a 360 gradi, tenendo conto di innumerevoli variabili. Proprio come ha iniziato a fare, quasi mezzo secolo fa, Franco Molfese. Detto in maniera estremamente sintetica, non si può parlare di brigantaggio se non lo si mette in stretto collegamento con la realtà sociale, culturale, politica ed economica del meridione d’Italia in quel particolare periodo storico. I briganti, insomma, non furono soltanto delinquenti congeniti e spietati tagliagole; il più delle volte, anzi, si trattò di povera gente, senza presente e, soprattutto, senza futuro, di poveri e cenciosi contadini che volevano soltanto coltivare e rendere produttivo un appezzamento di terra dal quale trarre il misero sostentamento quotidiano. La cosa, del resto, era stata loro solennemente assicurata da Garibaldi che, alla testa dei suoi uomini in camicia rossa, risaliva lo Stivale. Ma le promesse rimasero tali, Garibaldi si ritirò sdegnato a Caprera e la gran parte delle terre del meridione finirono nelle mani della vorace classe borghese che, proprio da quel momento, iniziò la sua inarrestabile ascesa. Quei contadini che sotto i Borbone non se la passavano certo bene, finirono per trovarsi molto peggio con i nuovi governanti piemontesi che pensarono solo ad armare eserciti, imporre tasse e varare leggi, spesso profondamente inique, senza mai analizzare a fondo il contesto nel quale si trovarono ad operare. Tutto questo, però, non è stato detto e non è sta-to scritto. O, almeno, lo si è fatto in maniera episodica e del tutto insufficiente. Si è preferito, invece, andare avanti con la solita, generica analisi in virtù della quale il brigante del Sud continua ad essere dipinto come un volgare delinquente al quale non si poteva che schiacciare impietosamente la testa. E, invece, proprio così non è stato. Si continui, perciò, a far parlare i documenti, si proceda a riscrivere la storia di alcuni episodi eliminando, magari, quella densa e a volte ridondante patina di enfasi risorgimentale. In una conferenza tenutasi qualche tempo fa in quel di Frosinone, il prof. Guido Pescosolido, uno dei più insigni storici del nostro tempo, ha affermato che “l’unità d’Italia impose costi e grandi sacrifici”. Partiamo, dunque, proprio da qui; iniziamo a parlare di quei costi e di quei sacrifici ed a vedere in quale misura essi hanno pesato sulla schiena greve e onusta delle derelitte genti del meridione. Salterà fuori un’altra storia, una storia diversa, di quella che non si legge sui libri di testo, forse meno aulica e lucente ma sicuramente più vera e, soprattutto, meno artefatta.

“Rinascita”, 31/10/2007

Giornalista e scrittore è stato direttore responsabile de “Il Corriere del Sud Lazio”, il settimanale delle province di Frosinone e Latina. Attualmente dirige “L'Alfiere”, pubblicazione napoletana tradizionalista che nel 2010 ha festeggiato il 50° anno di vita. E' inoltre direttore responsabile della rivista meridionalista “Il Tornese”. Cura, altresì, le pagine culturali de “L'Inchiesta”, quotidiano della Terra di Lavoro e della Ciociaria, di cui è capo redattore. Ha fatto parte del comitato di redazione di “Storia del 900” e collabora con “Storia in Rete”, il mensile di approfondimenti storici edito da Mondadori. E' inoltre vice presidente dell'Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie. Nel 2003 e nel 2005 è stato insignito del Premio Giornalistico Internazionale “Inars Ciociaria” , nella sezione “giornalisti-scrittori”, e nel 2013 del Premio Nazionale “Arte e Comunicazione”. E' autore di numerose pubblicazioni di carattere storico e, in particolar modo, di studi e saggi sul brigantaggio nell'Italia meridionale. Da ricordare “Il brigante Papone” (1995), “Piccole storie di briganti” (2003), “Costanzo Pompei da Pico, arciprete-brigante e carbonaro” (2013), “Brigantaggio postunitario. Una storia tutta da scrivere” (2011 e 2016) e “Klitsche de la Grange. Un colonnello prussiano contro la rivoluzione italiana” (D'Amico Editore 2017). Su tale fenomeno, e sul periodo risorgimentale in genere, tiene conferenze, convegni e seminari di studi in tutta Italia.

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